Mangiare, bisogna mangiare. Il cibo è necessario all’organismo umano e una dieta sana è uno degli elementi chiave per la salute e il benessere di tutti.
Certo, però: prima di raggiungere i nostri piatti, il cibo che mangiamo viene prodotto, conservato, lavorato, confezionato, trasportato, preparato e servito – e in ciascuna di queste fasi di preparazione vengono emessi gas serra nell’atmosfera.
Perchè si è arrivati al processo intensivo
Con l’aumento della popolazione mondiale, dal secondo dopoguerra, l’intero processo si è andato sviluppando in maniera sempre più complessa e globalizzata, per converso vi è stato un drammatico incremento degli impatti ambientali della produzione di questo bene primario che è il cibo.
Per soddisfare la domanda globale di cibo – e la varietà di questo per assecondare i gusti dei consumatori – l’uomo ha dovuto rendere più efficiente i suoi mezzi di produzione agricoli: basti pensare che negli ultimi quarant’anni vi è stato un raddoppio della produzione di grano mondiale e un aumento del 700% di uso di fertilizzanti rispetto agli anni ’50-’60.
E qui stiamo considerando soltanto gli effetti dell’agricoltura: a ben vedere, l’allevamento presenta risultati analoghi, se non peggiori (il 69% delle superfici agrozootecniche occupate sono destinate al pascolo: cioè la maggior parte dello sfruttamento del suolo per uso umano è dovuto all’allevamento).
Agricoltura intensiva: definizione e significato
Differenze tra agricoltura intensiva ed estensiva
Guardiamo ai dati
Attualmente si ritiene che il 40% della superficie terrestre sia occupata da attività di agricoltura e di allevamento.
In varie parti del mondo, soprattutto in Centro e in Sud America, la deforestazione per procurare terra agli animali da pascolo, oppure per le coltivazioni necessarie a produrre cibo per essi, ha avuto un impatto impressionante.
La stessa cosa vale per l’Asia: si stima che nel periodo 1990-2005 siano stati deforestati almeno 1 milioni di ettari di foresta nella sola Malesia e almeno 1,8 milioni di ettari in Indonesia: mettendo insieme la foresta scomparsa in questi due paesi si ottiene un’area più vasta del Piemonte!
In generale si stima che negli ultimi 300 anni si siano persi globalmente 11 milioni di chilometri quadrati di foresta per usi agricoli o di allevamento. Tutto ciò ha un impatto ambientale devastante, considerando che le foreste sono necessarie per contenere il cambiamento climatico.
Bisogna tenere in considerazione che allevamento e agricoltura sono responsabili del 14% dell’attuale risaldamento antropogenico. Nel dettaglio: il 47% delle emissioni di metano e il 57% delle emissioni di N20 derivano dai settori congiunti. E, come se non bastasse, queste emissioni sono cresciute negli ultimi 10 anni del 17%. Tenendo conto che la domanda di cibo nel mondo, secondo le più recenti stime, potrebbe aumentare anche del 70%, è il caso di iniziare a cercare soluzioni per limitare l’impatto dei settori agrozootecnici.
Uno dei modi per limitare l’effetto dell’agricoltura intensiva è la limitazione dei fertilizzanti. Come dicevamo, l’uso di questi è aumentato del 700% nel giro di cinquant’anni. Il ricorso ai fertilizzanti a base di azoto nell’agricoltura intensiva comporta il rilascio di nitrati nel suolo e nelle acque e nonostante le alte concentrazioni di fosfati e nitrati nelle acque non siano direttamente collegate al cambiamento climatico, la loro presenza può causare l’eutrofizzazione, ossia la crescita delle alghe e la riduzione della quantità di ossigeno presente nell’acqua – ciò, a sua volta, influenza tragicamente la vita delle specie acquatiche, comportando danni a senso unico.
Uno studio pubblicato sul “Water Resources Research” ha evidenziato come l’inquinamento delle acque sotterranee è imputabile all’intensificarsi dell’agricoltura nel corso del XX secolo.
Con l’avvento delle coltivazioni intensive le concentrazioni di nitrati in falda sono raddoppiate e se fino agli anni ’40 del secolo scorso il tasso medio d’ingresso nelle falde acquifere dei nitrati era così basso da permettere una denitrificazione naturale, oggi, a causa del raddoppio dei nitrati, vi è incapacità da parte del bacino acquifero di effettuare la denitrificazione, portando ad accumuli annuali di azoto e la perdita di biodiversità.
A pagare lo scotto dell’elevata quantità di pesticidi e fitofarmaci in agricoltura sono gli insetti, in particolare le api. Considerate che nei soli Stati Uniti, nel 2006, si è registrata una perdita del 30-40% delle colonie di api. La moria di api, d’altronde, si ripercuote direttamente anche sulla produzione agricola: si stima che senza le api, questa potrebbe calare del 75% (a rischio in particolare mele, fragole, pomodori e mandorle).
Inoltre dal 60% al 90% delle piante selvatiche necessita dell’impollinazione degli insetti per riprodursi: vi è quindi il rischio che, a causa degli impatti ambientali dell’agricoltura intensiva, la biodiversità del mondo cali drasticamente.
Quali soluzioni?
Beh, è l’intero sistema alimentare che dovrebbe trasformarsi per divenire più razionale dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse – per non parlare poi della necessità di trovare accordi politici per limitare le emissioni di gas serra.
In questo senso è necessario sì aumentare la produttività per soddisfare la domanda di cibo, ma insieme bisogna ridurre la dipendenza da fertilizzanti chimici, gli sprechi di cibo e il consumo di beni alimentari che, come la carne, comportano uno sfruttamento intensivo di risorse e la produzione senza rimedio di gas serra.
Ognuno di noi deve sapere che sì, mangiare bisogna mangiare: ma c’è modo e modo di farlo!