Il 2020 sembra non essere, almeno al momento, un anno particolarmente fortunato. Siamo, nel momento in cui scriviamo, ancora nel vivo dell’emergenza legata al Covid-19 nel mondo e alla conseguente pandemia contro cui il mondo sta lottando.

Un diffondersi, quello del virus, che scienziati, anche in Italia, stanno dimostrando esser stato probabilmente favorito, nel suo propagarsi, dagli alti livelli di inquinamento in alcune parti del pianeta.

Quasi le polveri sottili fungano da “vettore” per il virus e la sua progressiva espansione nell’aria.

Problematica, quella dell’inquinamento, di cui, sempre negli alcuni mesi, si è ampiamente dibattuto: basti pensare alle manifestazioni e mobilitazioni per la difesa dell’ambiente fatte seguito, fino a non molto tempo fa, all’attività della svedese Greta Thunberg.

Un’accesa battaglia volta a favorire decisioni politiche e comportamenti individuali (oltre che comunitari) nella speranza di contrastare il preoccupante fenomeno del cambiamento climatico prima del raggiungimento di un punto di non ritorno.

Cambiamento climatico che in molti hanno collegato, per andare ad un altro triste evento occorso fino a febbraio 2020, ai grandi incendi in Australia.

È lecito domandarsi infatti che ruolo può aver avuto nello sviluppo dei roghi, se non come causa immediata e diretta, almeno in termini di concausa e di fattore che possa averli favoriti nel loro svilupparsi, perdurare e propagarsi.

La siccità e le temperature record del 2019

Gli incendi boschivi hanno devastato parte dell’Australia sud-orientale a partire da giugno 2019. Particolarmente colpiti gli Stati federati del Nuovo Galles del Sud e Victoria.

Il 2019, in effetti, è ricordato per esser stato l’anno più caldo registrato in Australia dal lontano 1900, con temperature medie, nel mese di dicembre, di 42 °C e punte di 49 °C. 1,52 gradi in più, in media, rispetto alle temperature del trentennio 1961-1990.

A ciò si è aggiunto il fenomeno della siccità, con una riduzione delle precipitazioni del 40% che, nel suo protrarsi sul lungo periodo, ha causato il seccarsi  anche delle parti più grandi degli alberi. Ovvero, di quelle che, quando colpite dal fuoco, bruciano per più tempo.

Che ruolo ha il cambiamento climatico in tutto questo?

Determinante, se pensiamo che ad esso è appunto riconducibile l’aumento medio delle temperature australiane di almeno un grado nel corso di un secolo.

Mutamento climatico responsabile, secondo alcuni, anche di aver favorito due fenomeni meteorologici che hanno contribuito ad aggravare il quadro della situazione.

Il primo è il Dipolo dell’Oceano Indiano (IOD), come particolare configurazione che conduce aria umida sulle coste africane e secca su quelle australiane.

Il secondo è lo spostamento verso nord dei venti occidentali (detti anche anti-alisei) con conseguente ulteriore transito di aria secca e calda sull’Australia.

I pericolosi precedenti, gli studi e le proposte

Una correlazione, quella tra il triste evolversi degli incendi in Australia e il mutamento climatico, non sfuggita a giornali e media e su cui si è soffermato, tra gli altri, il noto quotidiano britannico The Guardian.

Ha ricordato, infatti, gli incendi boschivi già occorsi nel 2018 nello stato australiano del Queensland e uno studio che, a riguardo, aveva dimostrato come la ragione del surriscaldamento (e la conseguente alta frequenza di incendi) fosse riconducibile al cambiamento climatico di cui è responsabile l’uomo.

Un’eco ripresa dalla stessa Australia nell’“Australia’s National Environmental Science Program” che, dati alla mano, ha mostrato come il pericolo si concentri inevitabilmente in estate, causa l’anomalo aumento delle temperature, tale da determinare, al contempo, un preoccupante anticipo dell’inizio della stagione degli incendi.

Modelli climatici che hanno inoltre insistito sull’allarmante aumento della tendenza per un futuro prossimo, qualora non si intervanga in maniera drastica in termini di riduzione delle emissioni climalteranti.

Lo studio, sulla scia dei precedenti, ha ribadito, in ultima analisi, come l’origine del problema debba essere ricondotto all’uomo e alla sua attività sul pianeta.

Scenario di fronte al quale l’Australian Academy of Science, nella persona del presidente John Shine, ha preso pertanto posizione facendo emergere l’urgenza, per il Continente Rosso, di intervenire al più presto in maniera forte e decisa per rallentare e fermare il riscaldamento globale.

In caso contrario, episodi come quelli dei grandi incendi, da eccezione potrebbero diventare la norma.   

L’ostacolo della politica australiana

Un allarme per il proprio territorio che paradossalmente si è scontrato e si scontra tuttora con l’opposizione della stessa politica conservatrice australiana attualmente al governo. Basti pensare alla posizione negazionista del premier Scott Morrison.

Come mai? Il perché è da ricercarsi nella natura dell’economia australiana, basata, in effetti,  principalmente sull’estrazione e l’esportazione di carbone.

Un’attività, legata all’utilizzo di un combustibile fossile, in netta antitesi quindi con il contenimento dell’aumento delle temperature e gli accordi di Parigi cui l’Australia aveva comunque aderito in maniera blanda, impegnandosi per una modesta riduzione delle emissioni del 28% dal 2005 al 2030.

Responsabilità particolari che non devono far dimenticare, ad ogni modo, quelle globali: ad essere coinvolto è il mondo intero, sempre più interconnesso ed interdipendente nelle sue molteplici attività che contribuiscono a far lievitare la quantità di anidride carbonica emessa in atmosfera e nei confronti delle quali lo stesso singolo non può “lavarsi le mani” – Coronavirus o meno.

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