È stato il più grande progetto che sia mai stato annunciato nell’ambito delle energie rinnovabili: centinaia di pannelli solari, per un valore stimato di 200 miliardi di dollari, che si estendevano su altrettante centinaia di chilometri quadrati nel deserto dell’Arabia Saudita.
La massiccia iniziativa solare era stata annunciata da Mohammed Bin Salman, principe ereditario del regno, come “un enorme passo nella storia dell’umanità”; così almeno era stata svelata nel mese di marzo dello scorso anno.
Tuttavia, malgrado sia stata salutata fin da subito come una vera e propria vittoria per le energie rinnovabili in Arabia Saudita, è stata cancellata nel giro di pochi mesi.
Perché l’Arabia Saudita ha fatto questo brusco dietrofront? Cosa si cela dietro questo cambio di direzione? E qual è, ad oggi, il futuro delle energie rinnovabili in Arabia Saudita?
Ecco i pareri degli esperti.
La possibile causa
Il fallimento del maxi progetto solare, per gli analisti, non è stato che l’ultimo esempio del “malfunzionamento” degli ambiziosi schemi rinnovabili propagandati dall’Arabia Saudita negli ultimi dieci anni.
Gli annunci eclatanti, non a caso, sono sempre stati seguiti da progressi limitati. Se da un lato il paese ha aumentato la produzione di combustibili fossili, dall’altro ha continuato a fare pressione per “ammorbidire” i termini degli accordi globali di riduzione delle emissioni di carbonio.
I produttori di petrolio del Medio Oriente, inoltre, hanno sempre guardato con sospetto le energie rinnovabili, in quanto ritenute una minaccia per la loro prosperità.
Già nel 2010, si era rivelato impossibile parlare liberamente di transizione energetica poiché vigeva un certo ostruzionismo da parte dei grandi “signori del petrolio”.
Questa resistenza, peraltro, adesso sembra essere un po’ diminuita, ma non certo per la preoccupazione nei confronti dell’ambiente, anzi.
La rivalutazione delle energie rinnovabili in Arabia Saudita: ecco perché sta accadendo
Meno consumi in patria, di conseguenza, significa anche più petrolio e più gas da vendere all’estero o da mantenere in eccesso come mezzo per regolare l’approvvigionamento mondiale.
Le energie rinnovabili significano anche nuovi posti di lavoro: un obiettivo cruciale nel piano del regno per rendere l’economia dell’Arabia Saudita a prova di futuro e facendo meno affidamento sulla vasta riserva petrolifera che si nasconde sotto le sue sabbie.
La diffusione dell’energia verde come interesse nazionale, insieme ai prezzi bassi da record dell’energia solare ed eolica, sta facendo ben sperare e, per questo motivo, probabilmente la prossima iniziativa del regno volta a costruire una capacità rinnovabile avrà più successo.
Basti pensare che, nel mese di aprile del 2020, l’Arabia Saudita ha triplicato il suo obiettivo di affidarsi, in un prossimo futuro, alle energie rinnovabili e ha anche presentato, stavolta con più successo, gare di appalto per progetti su larga scala nel settore dell’energia eolica e solare.
Eppure, parallelamente a questo, negli ultimi dieci anni l’Arabia Saudita ha aumentato la sua produzione di petrolio di 2 milioni di barili al giorno.
E non è l’unica “pecora nera”: anche gli Emirati Arabi Uniti, che ricoprono il ruolo di leader della regione e che detengono quasi il 70% di tutta la capacità rinnovabile installata nel Golfo Arabo negli ultimi quattro anni, hanno aumentato la propria produzione di petrolio di 800mila barili al giorno nell’ultimo decennio.
Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita: perché dipendono ancora tanto dal petrolio?
C’è sempre quel paradosso tra ciò che i governi della regione (il Medio Oriente, ndr) dicono in termini di politica energetica – che vogliono uscire dalla dipendenza del petrolio, per ragioni finanziarie e ambientali – e quello che fanno nella pratica.
Nei fatti, sia gli Emirati Arabi Uniti sia l’Arabia Saudita stanno effettivamente aumentando la loro capacità di produzione e stanno facendo gare di appalto per dare più lavoro nei loro giacimenti petroliferi.
I forti limiti all’uso dei combustibili fossili, del tipo quelli che gli scienziati dicono siano necessari per prevenire aumenti catastrofici delle temperature globali, danneggerebbero in modo significativo i profitti delle compagnie petrolifere statali della regione.
Aramco, il gigante petrolifero dell’Arabia Saudita, nonché il più grande contributore alle emissioni globali di carbonio più di qualsiasi azienda al mondo dal 1965, lo ha scritto anche in un prospetto di 469 pagine, che è stato rilasciato ad aprile 2020 prima dell’arrivo della prima offerta di obbligazioni internazionali della società.
Sotto fattori di rischio, Aramco aveva affermato, con l’obiettivo di mettere in guardia gli investitori, che le preoccupazioni popolari sulla crisi climatica, così come i suoi impatti fisici sul pianeta, “potrebbero spostare la domanda verso combustibili fossili a minore intensità di carbonio…e avere un effetto negativo materiale sull’attività dell’azienda.”
Il ruolo dell’Arabia Saudita e degli stati petroliferi nei negoziati sul clima
I ricchi stati petroliferi hanno sempre svolto un ruolo chiave nella plasmazione dei negoziati globali su come ridurre drasticamente e rapidamente le emissioni di carbonio.
I sauditi, in particolare, sono sempre stati molto attivi sin dall’inizio di questo processo.
Basti pensare che, nel 1991, i sauditi e i kuwaitiani lavorarono con i lobbisti dell’industria dei combustibili fossili per sostenere disposizioni nell’interesse dei produttori di gas e di petrolio, ad esempio imponendo, in tutti i negoziati sul clima delle Nazioni Unite, che ogni decisione dovesse essere presa per consenso di tutte le 195 parti.
Ad oggi questo è il modo con cui vengono condotti i negoziati, consentendo agli stati petroliferi ricchi e ai principali esportatori di carbone (tipo l’Australia), di ritagliarsi esenzioni e accordi annacquati.
La regola del consenso, come sottolineato da Richie Merzan, un ex negoziatore sul clima per il governo australiano, ha accatastato il regime internazionale a favore dei ritardatari, dei profittatori e dello status quo.
Gli stati ricchi di petrolio si sono dimostrati anche molto determinati a introdurre l’idea di “misure di risposta” nei negoziati sul clima.
Un’idea per cui gli stati non dovrebbero essere solo compensati per gli impatti dei cambiamenti climatici – innalzamento del livello del mare, condizioni meteorologiche estreme, caldo da record – ma anche per le entrate che i produttori di combustibili fossili perderanno mentre il mondo passa ad un’energia a minore intensità di carbonio.
Nella migliore delle ipotesi, le misure di risposta sono diventate un canale di discussione su come facilitare questa transizione per le persone, come i lavoratori dell’industria dei combustibili fossili che potrebbero perdere il posto di lavoro a causa dell’azione per il clima.